venerdì 18 ottobre 2013

Lezioni di fisica

Che sappiamo noi oggi della morte
nostra, privata, poeta?
……………………………….Poeta è una parola che non uso
di solito, ma occorre questa volta perché
respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi
sulla nostra morte, ora, della morte illuminarci?

(Elio Pagliarani, da Lezioni di fisica)

* * *

Con il permesso di Fabiano Alborghetti, in partenza per Varsavia, pubblico questo suo articolo che risale all'anno 2006, pubblicato quando ancora esisteva splinder dal reverendo padre Fabrizio Centofanti.
Mi piacque così tanto che pensai di stamparmelo. Ora è l'unica copia che esiste, e la voglio condividere.


Domandarmi cosa è la poesia, sarebbe domandarmi come è un pomodoro, un quadro, un taglio di capelli o una vettura: una cosa necessaria e vitale per alcuni, inutile invece per altri.
Domandarmi invece cosa è il poeta è una cosa diversa. Potrei definirlo un mestierante che ha imparato o cerca di imparare bene un lavoro (come un falegname, un agricoltore) o un arte (alla pari della fotografia, della scultura volendo fare un esempio). Però se imparo un arte specifica come l'intagliare il legno o il produrre oggetti o riesco a far fruttare la terra perchè dia frutti che posso mangiare o vendere, allora un mestiere vero e proprio lo possiedo, potenzialmente posso essere utile alla società che dal mio operato trae del beneficio. A pari merito parrebbe essere il discorso riferito alle forme d'arte: se fotografo, potrò lavorare per un giornale ed offrire squarci di cronaca visibile, farò vendere vestiti se mi occupo di moda, o farò vendere lattine di tonno se fotografo oggetti. Scolpendo la pietra potrò far si che il mio prodotto venga esposto, messo in un museo, in una piazza, in una casa privata. la società poserà gli occhi su quel prodotto frutto del mio ingegno e ne ricaverà qualcosa, qualunque essa sia, fosse anche una breve sosta. In quella sosta sarà avvenuta comunque una riflessione.
Ora una domanda: può accadere la stessa cosa con la poesia?

*

Se mi rispondo, in parte accade e spesso non lo sappiamo (non ce ne accorgiamo) oppure vorremmo che il riconoscimento dato al frutto del nostro lavoro fosse così plenario, planetario, da soffocare quelle stille di vero apprezzamento che riteniamo però sempre insufficienti, miserrime per numero.  E' il confronto (inteso come misurazione di pesi e misure atto ad affermare la migliore qualità di questo o quello) che fa del poeta un insofferente e un incapace, così come l'invidia. Come posso essere invidioso di qualcuno che si cimenta con il linguaggio (qualunque forma abbia,: scultura, poesia, musica) che è differente dal mio?Ognuno pratica il proprio mestiere a livello così personale(visto che deriva da quella serie di nozioni che hanno formato anche il nostro carattere) che non è possibile alcun confronto. Nè tantomeno è possibile affermare che A è meglio di B. Sono semplicemente due cose diverse.
Ed è per il confronto che la poesia affonda in questioni altre e smette di essere poesia.

*

Preso per la sfera in cui è competente, il poeta produce qualcosa che viene recepito, amato, usato: una minuzia di persone accoglierà la poesia di tizio o caio per farla propria, tanto quanto accade con una buona mensola che regge i vasi o per una scultura  che altri si fermeranno a guardare: ecco apportato il nutrimento.
Avremo così prodotto qualcosa di equivalente al lavoro dell'agricoltore. Non colpevolizzo qualcuno se non ama le albicocche. se questi preferisce prugne e melone, sarà un suo gusto personale. A pari merito, non si può colpevolizzare chi non ama la poesia o quella data espressività poetica. Avrà altro a cui devolvere il proprio apprezzamento, qualunque cosa questo sia.
Il compito del poeta è produrre con sincerità, ed avendo come risorsa la parola invece che un attrezzo dovrà usarla propriamente senza porsi il quesito dell'universalità.
Tanto quanto il falegname, il poeta sarà tenuto a dare il proprio meglio, offrire un prodotto onesto e se possibile durevole. Dovrà essere cosciente che - come in tutti i mestieri - c'è la possibilità di crescere imparando nuove tecniche e che l'evoluzione non è rinnegare le radici o il percorso. Dovrà -il poeta così come ogni altro depositario di mestiere -essere cosciente che se c'è chi ama X altri ameranno Y o Z.
Non è - questa scelta - una condanna o un rimprovero nei confronti del prodotto o del produttore, semplicemente è un gusto che fa orientare il fruitore ultimo verso una cosa piuttosto che verso un'altra.
La vera morte della sincerità del mestiere, è pretendere che il prodotto debba venire adottato plenariamente ma ancor prima del prodotto che venga riconosciuta l'importanza del produttore. Quest'ultimo è solo uno dei tanti che fa.

*
Questa coscienza non è tollerabile dal poeta: la presunzione di essere colui che usa quel mestiere meglio di altri è la vera morte del mestiere, tanto quanto il poeta non è un referente divino che porge le risposte scavalcando ogni altra possibilità di possibile illuminazione o ponendosi dove invece è presente una mancanza (per questo ho voluto citare provocatoriamente Pagliarani in quel bel passaggio da Lezioni di fisica). il poeta non prende il posto di niente (così come il falegname non fa il farmacista): ha un proprio posto e allarga al massimo lo sguardo per capire. Questo si. E dalla comprensione o dalla tensione al comprendere allora produce. Il poeta, ripeto, non dà risposte, perchè quelle risposte non tocca a lui darle: non può questi pensare con la testa di ogni gente.
Il poeta al massimo potrà sollevare delle domande.
Se questo riuscirà a fare, allora si che il mestiere poeta ha un senso ed il prodotto -per quanto possa valere sul mercato - avrà uno spazio.ricordo però a me stesso sempre una cosa: domandarmi cosa è la poesia, sarebbe come domandarmi - ancora una volta e come fatto in apertura - cosa è un pomodoro, un quadro, un taglio di capelli o una vettura: una cosa necessaria e vitale per alcuni, inutile invece per altri.
Ed è una cosa che tutto sommato mi rende molto contento perchè ho capito cosa sto facendo, dove sto andando ma soprattutto mi mette alla pari di ognuno per i mezzi che ognuno ha, seppur ogni mezzo sia diverso e personale. il resto è speculazione.

Fabiano Alborghetti



10 commenti:

  1. Calligaro ci sta proprio bene qui sotto, grazie Elio!

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  2. Poeta è colui che tende alla dissoluzione del sensibile nel puro significato.

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    1. ben vengano definizioni ermetiche e libere
      la poesia accetta tutto
      non bada alla forma!
      o almeno, così dovrebbe essere, LIBERA!
      :-)

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  3. Parole molto limpide e stimolanti, queste di Alberghetti, su di una tematica spinosa: quella dell'universalità a fronte della evidente relatività dei gusti (e delle esigenze vitali). Una tematica che porterebbe diritta al concetto di "violenza simbolica" introdotto da Bourdieu e che ancora procura un estremo fastidio ai tanti "teorici", grandi, piccoli e infimi, impegnati a costruirsi un piedistallo traballante che non faccia correre loro il rischio di ignominiosi ruzzoloni (tanto più ridicoli quanto più alto lo si era progettato).

    Il cuore del suo discorso penso stia in questa frase:

    > la vera morte della sincerità del mestiere, è pretendere che il prodotto debba venire adottato plenariamente ma ancor prima del prodotto che venga riconosciuta l'importanza del produttore

    E' chiaro: il problema si pone quando il rapporto 1 a 1, inizialmente paritetico fra artefice ed astante, quando una eventuale mancata riuscita si riverbera in uguali "responsabilità" e può quindi essere registrato in piena serenità (ed è il rapporto iniziale, quello ovvio, fra due coscienze della stessa dignità) VUOLE FARSI rapporto 1 a n, ovvero fra creatore idolatrato e massa adorante e semianonima, laddove si introduce il fattore successo, o "gloria", cioè notorietà ed anche denaro - ovviamente catalizzatori potentissimi della distorsione mimetica.

    Nella poesia questo problema si fa estremo proprio perché essa richiederebbe all'Altro - per la sua natura di confessione intima, per quanto velata - un'apertura, un interesse, una perspicacia, una delicatezza, un vero e proprio "affetto" che non si può concedere troppo spesso nella vita e quindi si riserva di norma alle amicizie più profonde o alle relazioni amorose.
    Chiaramente questo non è possibile in via sistematica per cui sarà giocoforza escogitare delle formule esterne, meccaniche, stilistiche, oggettive, che diradino il sottobosco in maniera che soltanto poche piante possano accaparrarsi la luce sufficiente per crescere rigogliose.

    E' per questi "selezionati" che si deve quindi mettere in moto la "violenza simbolica": essi non devono assolutamente apparire come dei fortunati, premiati dalle casuali (perché imprevedibili) configurazioni dei poteri costituiti e costituendi, degli affetti, delle occasioni colte al volo. Tutto deve invece sembrare basato su una rigorosa "meritocrazia", sul mitico "talento". E deve sembrare che chi non ne colga il merito, nelle gerarchie risultanti, si autosqualifichi da sé, vuoi per ignoranza vuoi per insensibilità.
    Si costruisce così l'arma del ricatto, il pegno d'ingresso nell'organizzazione: come nelle imprese piramidali bisogna prima di tutto riconoscere la legittimità, la priorità, degli investimenti effettuati da coloro che sono entrati prima, "let them shine first", raccomandava Mark Kostabi.

    Non sto facendo del moralismo: questo è l'uomo e la società funziona, in buona sostanza, così. A chi piace, ci si tuffi pure come pesce baleno. Ma questo almeno mi da conto del perché "l'impresa poetica" - da quello che capto in tanti posti in cui si svolge" - lungi dall'incrementare la felicità umana dei partecipanti sembri invece una fabbrica di frustrazione, invidia, ipocrisia ed angoscia.

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    1. Grazie per il contributo, Elio
      sei stato molto chiaro
      hai toccato un tasto dolente
      la poesia è debole, da sola non sopravvive, nel mercato intendo, e quindi ha bisogno di visibilità
      questa visibilità, a sua volta, ha bisogno di critici e lettori, editori
      ma poi ha anche bisogno di disponibilità verso gli incontri, per la divulgazione...
      diventa faticoso, seguirla...
      commentarla invece, è diventato un gioco fin troppo semplice, direi scontato.
      però chi la coltiva per passione, non deve abbandonarla, perchè essa è il veicolo che porta alla luce l'intimità e il percorso che molto spesso, nella realtà, non viene per niente intravisto.

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    2. per percorso intendo quello individuale...

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  4. Ha ragione (da vendere) Elio, in proposito alla distribuzione. E questo problema, è dibattuto oramai da cinquant'anni. Ma è così. Infondo internet ne dovrebbe essere argine, vedremo.

    Stante il problema, per me, il poeta è retore che sa di musica.
    Quindi la poesia è retorica e musica.
    A volte retorica buona ma musica cattiva, raramente son ben combinate le due cose.
    Poi nell'ambito poetico ci sono i generi. Io personalmente non sono contrario ai generi. Con il verso "libero" si è creata anche una platea libera questo è un bene.
    Prosa con soventi accapo. Questo genere di "elegia" ha il merito,
    d'essere ben organizzata. il verso libero è un'illusione, rimane la platea. Ma anch'esso, il verso libero, ovviamente è genere retorico e musicale. Come certa prosa naturalmente.
    Personalmente la poesia piace molto, ne amo la sintesi. La preferisco al racconto e al romanzo che solitamente degenera lungamente. Il teatro è superiore a ogni forma d'arte retorica. Ci sarebbe ora il cinema ma credo che sia presto per dare un giudizio.

    una buona domenica.

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    1. anche io amo la sintesi, bisognerebbe inserirla in molte discipline, sarebbe un bene per l'umanità...
      arrivare al nocciolo delle questioni senza girare a vuoto, sviscerare il pensiero diretto, senza costruirci intorno troppi artifici.
      Connubio tra poesia e musica avviene soprattutto nel verso studiato, quello che segue una certa metrica
      ma l'azzardo è quello di creare il verso libero che contenga musicalità perchè il vincolo non sempre deve essere scontato, deve anche essere improvvisato...
      deve seguire i moti dell'animo, sopratutto :-)

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  5. "ho capito cosa sto facendo, dove sto andando ma soprattutto mi mette alla pari di ognuno per i mezzi che ognuno ha, seppur ogni mezzo sia diverso e personale. il resto è speculazione."
    Mi aggancio al finale, perché -capire- cosa si sta facendo ha già sua dignità, offre un senso al -fare- e l'umiltà sta in quel "per i mezzi che ognuno ha" è qui che troviamo anima e cuore...il resto...come scrive Alborghetti, è speculazione.

    Grazie Carla per questa preziosa condivisione,
    un abbraccio t.

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