Copio e pubblico questa nota di Antonio Moresco per l'attualità dell'argomento
e per l'attualità di Leopardi:
Nei giorni scorsi, dopo essere stato escluso dalla cinquina dei
finalisti allo Strega, mi sono permesso – rompendo il galateo italico intriso
di disincantato cinismo – di mettere per iscritto alcune mie considerazioni, in
un articolo che è apparso su "La Repubblica" del 17 giugno 2016 e che
qui riporto nella sua interezza.
Baci, abbracci e pugnalate alle spalle, cabaret che si muovevano a
stento nella ressa, file di calici, scrittori e scrittrici in fibrillazione,
omaggi insinceri, uomini potenti nella piccola cerchia dell’editoria, dei media
e dell’accademia, novantenni con il bastone che vantavano la loro longevità di
uomini e di giurati, ragazze e signore in abiti da sera, astrologhe... Ieri
sera, nelle stanze e nelle terrazze sovraffollate della Fondazione Bellonci, in
un situazione di estraneità, ho assistito al consumarsi di un antico rito,
quello della votazione per eleggere la cinquina dei finalisti dello Strega,
dalla quale è stato escluso il mio ultimo romanzo intitolato L’addio,
che – se può valere qualcosa l’opinione dell’autore – a me pare il più
ardimentoso dei miei romanzi brevi. Qualcuno in rete, nelle settimane scorse,
mi aveva così definito: “Un alieno al Premio Strega” Per come sono andate le
cose, aveva visto giusto.
“Come fate a vivere così?” mi veniva da domandare guardandomi
attorno “Perché state con le gambe così piantate dentro questa melma? Perché
avete dato a questa melma il nome di cultura? Non lo sapete che quello della
poesia e della letteratura è il più grande e irradiante sogno che sia mai stato
sognato?”
Certo, non mi aspettavo niente, tanto più che ho presentato questo
libro non con il potente editore con cui avevo pubblicato i precedenti ma con
un altro, per rispondere all’invito di un amico cui mi legava un debito di
riconoscenza, perché gli scrittori non sono o non dovrebbero essere dei robot
tesi soltanto alla loro promozione e “carriera”, a mio parere, e anche perché,
se la situazione è tale per cui l’unica alternativa che viene data è tra
vincere male e perdere bene, allora preferisco perdere bene. Certo, non sono
una persona ingenua al punto di non sapere come stanno le cose e non mi faccio
illusioni. Ma quello che ho visto è stato più prevedibile e desolante di quanto
avessi immaginato. Tutti sanno e tutti fanno finta di niente, come se fosse
naturale un simile orrore.
Sapevo quanto il gioco fosse truccato. Eppure, certo per mia
inguaribile ingenuità, a 68 anni e dopo avere scritto tanti libri e dopo quello
che sta iniziando a succedermi all’estero, mi ha impressionato il fatto di non
essere stato neppure ritenuto degno di entrare nella cinquina degli attuali
finalisti, come mi ha impressionato che nel più noto premio nazionale tutti i
finalisti, tutti, nessuno escluso, abitino a Roma.
Nella mia vita ho fatto ampiamente esperienza di questo rigetto da
parte della società della cosmesi culturale, che ho anche raccontato in modo
diretto in Lettere a nessuno, ed è anche vero che quella dei rifiutati
(refusés) è una storia lunga e che è spesso proprio dalle loro schiere che ci
arriva ancora adesso ciò che può portare il terremoto nelle nostre vite e far
rivivere le nostre anime. Eppure, se non sei disattivato, il fatto di saperlo
non mette evidentemente al riparo dal provare dolore e scandalo.
Diversi anni fa avevo scritto da qualche parte: “Quando il gioco è
truccato, l’unica è non giocare. O fare un gioco diverso.” Ho sbagliato a
dimenticarmi di quelle mie stesse parole. Non mi succederà una seconda volta di
andarmi a cacciare in una situazione simile. Ma è certo che continuerò a fare
un gioco diverso.
Per allargare un po’ l’orizzonte, ripeto qui quello che vado
scrivendo da tempo: il mondo culturale italiano partecipa delle stesse logiche
e comportamenti che vengono invece esecrati con aria di superiorità nella
politica e persino nella criminalità organizzata. Ogni cosa, anche nata con le
migliori intenzioni, viene piegata a logiche di cerchia o di cosca, snaturata
nella sua essenza, resa funzionale a interessi o deliri di piccolo potere
terminale e gregario, in un gioco chiuso e di sponda tra editoria, accademia e
media. Libertà e coraggio sono una merce rara, così come lo sono in altri campi
dove il rischio che si corre è molto più grande. Anche per questo la cultura
italiana di questi decenni ha chiuso gli orizzonti invece di spalancarli e
sfondarli, si è attestata in una zona morta e ha preteso che tutto fosse a
propria immagine e somiglianza, per questo non è riuscita a fare argine al male
ma è diventata essa stessa una forma di questo male.
Ringrazio i miei due coraggiosi presentatori, Daria Bignardi e
Tiziano Scarpa, per la loro libertà, convinzione e fervore, Antonio e Jacopo
che mi sono stati vicini in questa battaglia, senza speranza come quella del
protagonista del libro che abbiamo inalberato, l’editore Giunti e le ragazze
toste che mi hanno seguito, le persone che hanno dato il loro appoggio e il
loro voto a questo libro così anomalo e poco accomodante, per le cose sincere e
toccanti che mi hanno detto a voce durante la mia serata catatonica e poi per
telefono.
Sono arrivato in Italia dalla Croazia, interrompendo per qualche
giorno un cammino intitolato “Il sogno dell’Europa”, per partecipare alle
incombenze legate al premio, e fra pochi giorni mi ricongiungerò ai camminatori
della nostra piccola e prefigurativa Repubblica nomade camminando con loro in
Bosnia Erzegovina, fino a Sarajevo, e allora la fatica e il sogno prenderanno
il sopravvento e potrò gettarmi alle spalle queste miserie.
Aggiungo ora a queste prime riflessioni altre e più generali
considerazioni, dettate da quanto è successo dopo. Perché l’uscita di questo
articolo – come era prevedibile, giudicato da molti inelegante e ingenuo – ha
dato il la a un coro di disapprovazione, in modi e forme che a mio parere
rivelano molto bene come stanno le cose nel nostro Paese e anche nel piccolo
mondo gregario della cosiddetta cultura.
Sono stato accusato, ad esempio, di non saper stare al gioco,
senza entrare nel merito del tipo di gioco di cui si sta parlando, perché anche
un gioco deve avere la sua credibilità, non deve essere truccato, perché anche
e soprattutto il gioco è una cosa maledettamente seria.
Qualcuno (Tullio De Mauro, presidente del Premio stesso) mi ha
intimato: “Se Moresco conosce il nome del truccatore, lo dica!”, fingendo di
non sapere e di non vedere che in realtà la situazione è infinitamente più
grave, perché non siamo di fronte a un singolo malvagio truccatore, ma a un
intero sistema bloccato e truccato, anche se mi rendo conto che qui da noi i
sistemi funzionano così e si reggono solo così, che a toccare qualcosa crolla
tutto, e che in genere le persone non segano il ramo su cui sono sedute. Ma
vorrei dire a De Mauro, verso il quale non nutro nessuna personale inimicizia:
“Le pare trasparente e giusto, ad esempio, che una parte consistente dei giurati,
notoriamente, non legga neppure i libri o tutti i libri presentati e non
verifichi perciò di persona il loro singolo valore e pregio ma voti per
scuderie e cordate di appartenenza, giri e cerchie editoriali e amicali? Che la
quasi totalità delle vittorie assegnate dal Premio che lei presiede vengano da
molto tempo attribuite quasi esclusivamente a libri pubblicati dai due più
potenti gruppi editoriali italiani (ora diventati uno solo)? Che, per scendere
nel recente specifico, in questa edizione del Premio che pure si dice nazionale
tutti i finalisti, nessuno escluso, siano scrittori che abitano a Roma e che
quindi hanno potuto sfruttare al meglio i giri di amicizie e complicità
personali? Non le pare che ci sia qualcosa che non va in tutto questo? Non le pare
che, anche solo per questo e tralasciando altre cose, si possa parlare di un
premio privo di limpidezza e credibilità letteraria? Come si fa a chiudere gli
occhi di fronte a tutto ciò e a nascondersi dietro formule e dialettiche di
rito? Io non accuso le singole persone legate al Premio, alcune delle quali ho
potuto conoscere di persona, per le quali ho provato simpatia e che non mi sono
sembrate cattive persone. Ma questo non toglie che le cose stiano così, che il
sistema funzioni così, dentro questo blocco e questa complicità, e non elimina
il dolore – per chi ha l’ingenuità di credere in quella cosa che è stata
chiamata letteratura– nel vedere come funziona il più noto premio letterario
italiano. Ma è lo specchio dell’Italia, mi ribatte qualcuno con la consueta
accettazione cinica che caratterizza il nostro Paese, tutta l’Italia è così e
funziona così, come puoi pretendere che un premio letterario sia diverso? E
invece questo, a mio parere, aumenta la gravità della cosa e il dolore, non li
diminuisce.
Ma adesso, in questo breve intervallo prima della mia partenza per
la Bosnia, vorrei dire ancora qualcosa sulle reazioni apparse in rete alla mia
presa di posizione, dove vengo fatto segno a un vero e proprio coro di
riprovazione e sarcasmo. C’è chi, credendosi superfurbo solo perché
supercinico, mi da dell’idiota e mi dice: “Ma come, non lo sapevi che quel
premio è così? E allora perché ci hai partecipato? Sei scemo!” Ho già spiegato
il perché ho partecipato e non voglio ripetermi, come ho anche detto che è
stata da parte mia un’ingenuità e uno sbaglio che non ripeterò una seconda
volta, ma si dà il caso che ci sia a volte nelle persone anche qualcosa che le
può magari far apparire umane-troppo umane, sprovvedute, ingenue e idiote agli
occhi dei supercinici e superfurbi, e si dà anche il caso che, molto spesso,
gli scrittori degni di questo nome appartengano – maledizione!– a questa
risibile categoria e non a quella dei superfurbi.
Altri mi danno addosso dicendomi che non sarei stato elegante a
esprimere il mio scandalo dopo l’esclusione, perché l’Italia è fatta così e
quindi bisogna evidentemente accettare le cose così come stanno (“E’ l’Italia,
bellezza!”). Ma è proprio questo il veleno che corrode ogni cosa nel nostro
Paese (non a caso il nostro è il Paese che si è inventato la commedia
all’italiana, questo ridere di tutto e ridersi addosso, sentendosi affratellati
e decolpevolizzati al ribasso).
C’è poi chi fa delle generalizzazioni parlando degli scrittori e
dei libri presenti al Premio come se fossero degli insiemi matematici,
stabilendo regole generali di comportamento che bisognerebbe osservare, senza
entrare nel merito dei singoli scrittori e dei singoli libri, che possono
essere molto diversi gli uni dagli altri. Altri mi accusano di non saper stare al
gioco e di non saper perdere. Saper perdere è una bella cosa, e non è detto che
alla fine perdere sia la cosa peggiore. Ma, se la gara è truccata e senza
credibilità, non si può nemmeno dirlo? E’ la stessa cosa perdere in un gioco
truccato che perdere in un gioco leale? Il premio Strega è un gioco, mi viene
anche detto. Come a dire. “Si sa che è una pagliacciata, se ci si entra bisogna
accettarlo”. Fatemi capire: è una pagliacciata o è una cosa seria? Perché, se è
una pagliacciata, bisogna dirlo subito e allora chi lo vuole può entrarci
vestito da pagliaccio e gli altri sanno che devono stare fuori. Non si può dire
nello stesso tempo che è una pagliacciata e che è una cosa seria, tanto da
presentarla nella sede del Parlamento alla presenza della Presidente della
Camera dei Deputati della nostra Repubblica. Ma, si sa… è l’Italia, bellezza! È
questa la risposta dei disincantati agli incantati.
Insomma, non solo il Premio stesso ma anche molte delle
prevedibili denigrazioni al mio gesto di non accettazione che sono apparse in
rete mi pare che esprimano bene il costume italico.
La cosa che mi ha più colpito durante le iniziative pubbliche cui
ci è stato chiesto di partecipare è avvenuta a Sanremo, nel teatro del Casinò,
durante una sorta di illuminante gemellaggio tra il Festival della canzone
italiana e il Premio Strega. In quell’occasione la prima cosa che è stata
proiettata su uno schermo è stato un documentario che mostrava con allegro
cinismo alcuni degli illustri trombati al Premio, in un pendant con gli illustri
trombati al Festival. Così da una parte si vedevano Gadda, Pasolini, Calvino
(che tra l’altro non davano prova di quel divertito disincanto che io stesso
sono accusato di non avere mostrato, ma che al contrario non le mandavano a
dire), dall’altra Vasco Rossi, Lucio Battisti (hanno avuto almeno il pudore o
la furbizia di non mostrare anche il povero Tenco). “Ma come?” mi dicevo “E lo
esibite così! Mettete le mani avanti così! E, come se non bastasse, ci
scherzate anche sopra? Non vi ponete il problema di come sia potuto succedere
che un Premio che dovrebbe premiare il meglio e trarre la sua ragion d’essere e
la sua dignità da questo ruolo che si è pubblicamente assunto bocci ad esempio
Pasolini e premi invece Bevilacqua con uno dei suoi libri peggiori? Non vi
passa per la mente che c’è evidentemente qualcosa di molto profondo da cambiare
e terremotare in questo Premio che, se rappresenta l’Italia, non ne rappresenta
certo il volto migliore? Invece le risposte, anche oggi, sono sempre le stesse:
non bisogna prendere le cose sul serio, non bisogna provare indignazione e
dolore per come stanno le cose, bisogna essere dei disincantati, degli ignavi,
bisogna stare al gioco anche quando il gioco fa spavento, perché, perché…
perché è L’Italia, bellezza!
Ma ora vorrei chiudere queste riflessioni riportando alcuni brani
tratti dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di
Leopardi, scritto quasi due secoli fa ma che impressiona ancora per la sua
attualità, e la cui profondità e verità ho potuto toccare con mano anche nella
piccola vicenda di cui sto parlando e che ho sperimentato di persona.
«Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte
eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero,
poiché essi sono tanto più addomesticati, e per così dire convivono e sono
immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la
filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa
cognizione, che in essi è piuttosto opinione e sentimento, sono al tutto e
praticamente disposti assai più delle altre nazioni. Or da ciò nasce ai costumi
il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né
meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita, sono i
maggiori nemici del bene operare, e autori del male e dell’immoralità. Nasce da
quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso
se stessi e verso gli altri, che è la maggiore peste dei costumi, de’ caratteri
e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più
naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà
delle cose e degli uomini, senza però essere disperato né inclinato alle
risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua
cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste ultime
condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole è quella di un pieno e
continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di
parole e d’azione. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e
la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo
o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene,
e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli
altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur
vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; – continuare in una vita
che si disprezza, convivere e conversar con gli uomini che si conoscono per
tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e
abitualmente di ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è
certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gli italiani generalmente
parlando, e con quelle diversità di proporzione che bisogna presupporre nelle
diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intera, si sono
onninamente appigliati a questo partito. Gli italiani ridono della vita: ne
ridono assai più e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza
che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro
val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più
vivaci e caldi di natura, come è quello degl’italiani, diventano i più freddi e
apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così
negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più
ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il
più cinico de’ popolacci.»
Ma vorrei concludere con questo meraviglioso elogio della
solitudine e della sua medicina, che compare nello stesso libro, in una nota
dove l’Autore riporta uno dei suoi Pensieri:
«La solitudine rinfranca l’animo e ne rinfresca le forze, e
massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce.
Ella scancella quasi o ristringe o indebolisce il disinganno, quando abbia
avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo. Ella rinnova la vita
interna. In somma, bench’ella sembri compagna indivisibile e quasi sinonimo
della noia, nondimeno per un animo che vi abbia contratto una certa abitudine,
e con questa sia divenuto capace di aprire e spiegare e mettere in attività
nella solitudine le sue facoltà, ella è più propria a riconciliare o
affezionare alla vita, che ad alienarne, a rinnovare o conservare o accrescere
la stima verso gli uomini e verso la vita stessa, che a distruggerla o
diminuirla o finir di spegnerla».
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